Ai Dirigenti e al Personale dell Istituto Nazionale per l Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL) (9 marzo 2023)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Vi do il benvenuto e ringrazio il Presidente per le sue parole. Grazie per aver fatto riferimento alla dottrina sociale della Chiesa. Sono lieto di questo incontro per poter incoraggiare il vostro impegno che, come ha detto il Presidente, vuole “costruire una società nella quale nessuno resti indietro”. Voi lo fate operando perché sia tutelata la dignità delle persone nell’ambiente del lavoro. Sappiamo che non è sempre così e non lo è dappertutto. Spesso il peso di un infortunio viene caricato sulle spalle della famiglia, e questa tentazione si manifesta in diverse forme. La recente pandemia ha aumentato il numero di denunce in Italia, in particolare nei settori della sanità e dei trasporti.
Grazie per il supplemento di cura che avete messo in campo nel periodo di massima crisi sanitaria, specialmente nei confronti delle categorie più fragili della popolazione. Negli ultimi mesi, inoltre, si è rilevata una crescita di casi di infortunio femminile, a ricordarci che la piena tutela delle donne nei luoghi di lavoro non è ancora realizzata. E su questo anche, mi permetto di dire, c’è uno scarto previo delle donne, per paura che rimangano incinte; è meno “sicura” una donna, perché può diventare incinta. Questo si pensa al momento di assumerla: quando comincia a “ingrassare” se si può mandarla via è meglio. Questa è la mentalità e dobbiamo lottare contro questo.
L’attività del vostro Istituto è doppiamente preziosa, sia sul versante formativo per prevenire gli infortuni sul lavoro, sia sul versante di accompagnamento degli infortunati e di sostegno concreto alle loro famiglie. Il servizio a cui vi dedicate consente di non far sentire nessuno abbandonato a sé stesso. Questo è decisivo. Senza tutele, la società diventa sempre più schiava della cultura dello scarto. Finisce per cedere allo sguardo utilitaristico nei confronti della persona, piuttosto che riconoscere la sua dignità. La tremenda logica che diffonde lo scarto si riassume nella frase: “Vali se produci”. Così conta solo chi riesce a stare nell’ingranaggio dell’attività e le vittime vengono messe da parte, considerate un peso e affidate al buon cuore delle famiglie.
Nell’Enciclica Fratelli tutti si mette in rilievo che lo «scarto si manifesta in molti modi, come nell’ossessione di ridurre i costi del lavoro, senza rendersi conto delle gravi conseguenze che ciò provoca, perché la disoccupazione che si produce ha come effetto diretto di allargare i confini della povertà» (n. 20). Tra le conseguenze del mancato investimento sulla sicurezza nei luoghi di lavoro vi è anche l’aumento degli infortuni. Davanti a questa mentalità abbiamo bisogno di ricordare che la vita non ha prezzo. La salute di una persona non è scambiabile con qualche soldo in più o con l’interesse individuale di qualcuno. E bisogna purtroppo aggiungere che un aspetto della cultura dello scarto è la tendenza a colpevolizzare le vittime. Questo si vede sempre, è un modo di giustificare, ed è segno della povertà umana in cui rischiamo di far cadere le relazioni, se perdiamo la retta gerarchia dei valori, che ha in cima la dignità della persona umana.
Cari amici, la vostra presenza oggi consente di riflettere sul senso del lavoro e su come sia possibile, in contesti storici diversi, coniugare la parabola evangelica del buon Samaritano (cfr Lc 10,25-37). La cura per la qualità del lavoro, come pure per i luoghi e per i trasporti, è fondamentale se si vuole promuovere la centralità della persona; quando si degrada il lavoro, si impoverisce la democrazia e si allentano i legami sociali. È importante fare in modo che siano rispettate le normative sulla sicurezza: non possono mai essere viste come un peso o un fardello inutile. Come sempre accade, ci rendiamo conto del valore della salute solo quando viene a mancare. Un aiuto può venire anche dal ricorso alla tecnologia. Ad esempio, essa ha favorito lo sviluppo del lavoro “a distanza”, che in certi casi può essere una buona soluzione, purché non isoli i lavoratori impedendo loro di sentirsi parte di una comunità. La netta separazione tra luoghi di vita familiare e ambienti lavorativi ha avuto conseguenze negative non solo sulla famiglia, ma anche sulla cultura del lavoro. Ha avvalorato l’idea secondo cui la famiglia sarebbe il luogo del consumo e l’impresa quello della produzione. Questo è troppo semplicistico. Ha fatto pensare che la cura sia fatto esclusivo della famiglia e non c’entri con il lavoro. Ha rischiato di far crescere la mentalità secondo la quale le persone valgono per quel che producono, per cui fuori dal mondo produttivo perdono valore, identificato in modo esclusivo con il denaro. Questo è un pensiero abituale, un pensiero direi non del tutto conscio, ma subliminale.
La vostra attività ricorda che lo stile del buon Samaritano è sempre attuale ed ha una valenza sociale. «Coi suoi gesti il buon samaritano ha mostrato che l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri: la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro» (Fratelli tutti, 66). Quando una persona invoca aiuto, si trova nella sofferenza e rischia di essere abbandonata sul ciglio della strada della società, è fondamentale l’impegno sollecito ed efficace di istituzioni come la vostra, che mettano in pratica i verbi della parabola evangelica: vedere, avere compassione, farsi vicini, fasciare le ferite, farsi carico. E questo non è un bell’affare, è sempre in perdita!
Vi incoraggio a guardare in faccia tutte le forme di inabilità che si presentano. Non solo quelle fisiche, anche quelle psicologiche, culturali e spirituali. L’abbandono sociale ha riflessi sul modo in cui ciascuno di noi guarda e percepisce sé stesso. “Vedere” l’altro significa anche trattare le persone nella loro unicità e singolarità, facendole uscire dalla logica dei numeri. La persona non è un numero. Non esiste l’“infortunato” ma il nome e il volto di chi ha subito un infortunio. Esiste il sostantivo, non l’aggettivo: un infortunato; no, è una persona che ha subito un infortunio. Noi siamo abituati a usare troppo gli aggettivi, siamo in una civiltà che è caduta un po’ nell’usare troppo gli aggettivi e abbiamo il rischio di perdere la cultura del sostantivo. Questo non è un infortunato, è una persona che ha avuto un infortunio ma è una persona.
Non rinunciate alla compassione – che non è una cosa stupida da donne, da vecchiette, no, è una realtà umana molto grande –: io condivido perché ho una certa compassione, che non è lo stesso di lástima [spagnolo: pietà], ma è condividere il destino. Si tratta di sentire nella propria carne la sofferenza dell’altro. È il contrario dell’indifferenza – noi viviamo in una cultura dell’indifferenza –, che porta a girare lo sguardo altrove, a tirare dritto senza lasciarsi toccare interiormente. La compassione e la tenerezza sono atteggiamenti che riflettono lo stile di Dio. Se noi ci domandiamo qual è lo stile di Dio, tre parole lo indicano: vicinanza, Dio sempre è vicino, non si nasconde; misericordia, è misericordioso, ha compassione e per questo è misericordioso; e terzo, è tenero, ha tenerezza. Vicinanza, misericordia compassionevole e tenerezza. Questo è lo stile di Dio e su questa strada dobbiamo andare.
Pensiamo alla vicinanza, alla prossimità: colmare le distanze e collocarsi sullo stesso piano di fragilità condivisa. Quanto più uno avverte di essere fragile, tanto più merita vicinanza. In questo modo, si abbattono le barriere per trovare un comune piano di comunicazione che è la nostra umanità.
Fasciare le ferite può significare per voi dedicare tempo e allontanare ogni tentazione burocratica. La persona che ha subito un infortunio chiede di essere accolta prima ancora di essere risarcita. Ed ogni risarcimento economico acquista pieno valore nell’accoglienza e nella comprensione della persona.
Si tratta poi di farsi carico con la famiglia della situazione drammatica di chi è costretto ad abbandonare il lavoro a causa di un infortunio; prendersene cura in maniera integrale. Questo richiede anche creatività, perché la persona si senta accompagnata e sostenuta per quello che è e non con falsa pietà. Non è un’elemosina, è un atto di giustizia.
Cari amici, lasciamoci interpellare dalle ferite delle nostre sorelle e dei nostri fratelli – queste ferite ci interpellano, lasciamoci interpellare – e tracciamo sentieri di fraternità. La nostra assicurazione è data dalla solidarietà e dalla carità, prima di tutto. Essa non risponde solo a criteri di giustizia legale, ma è cura dell’umanità nelle sue diverse dimensioni. Quando questo viene meno, il “si salvi chi può” si traduce rapidamente nel “tutti contro tutti” (cfr Fratelli tutti, 33). L’indifferenza è segno di una società disperata e mediocre. Dico disperata nel senso che non ha speranza.
Vi affido alla protezione di San Giuseppe, patrono di tutti i lavoratori. Il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca. E per favore, pregate per me. Grazie!