Messaggio del Santo Padre al Simposio in occasione del 10° anniversario dell Evangelii Gaudium, promosso dal Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale (24 novembre 2023)
Cari fratelli e sorelle,
Ringrazio il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale per aver organizzato questo simposio di riflessione su Evangelii gaudium a dieci anni dalla sua pubblicazione.
In quella occasione mi sono rivolto ai cristiani per invitarli a una nuova fase nell’annuncio del Vangelo. Ho proposto di recuperare la gioia missionaria dei primi cristiani, «ricolmi di coraggio, instancabili nell’annuncio e capaci di una grande resistenza attiva» [1], anche in un contesto che, naturalmente, «non era favorevole all’annuncio del Vangelo, né alla lotta per la giustizia, né alla difesa della dignità umana» [2]. Furono diffamati, perseguitati, torturati, assassinati… e, ciononostante, invece di rinchiudersi, furono il paradigma di una Chiesa in uscita, che «sapeva prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi» [3].
Anche nel nostro tempo ci sono difficoltà, meno esplicite ma forse più insidiose. Non essendo tanto visibili, agiscono come un’anestesia o come il monossido di carbonio delle vecchie stufe che uccide silenziosamente. «In ogni momento della storia è presente la debolezza umana, la malsana ricerca di sé, l’egoismo comodo e, in definitiva, la concupiscenza che ci minaccia tutti. Tale realtà è sempre presente, sotto l’una o l’altra veste» [4].
L’annuncio del Vangelo nel mondo attuale continua a richiedere da parte nostra «una resistenza profetica, come alternativa culturale, di fronte all’individualismo edonista pagano» [5], come quella dei Padri della Chiesa, resistenza di fronte a un sistema che uccide, esclude, distrugge la dignità umana; resistenza di fronte a una mentalità che isola, aliena, limita la vita interiore ai propri interessi, ci allontana dal prossimo, ci allontana da Dio.
In Evangelii gaudium ho voluto mostrare con chiarezza che, chiamati ad avere «gli stessi sentimenti di Gesù Cristo», la nostra missione evangelizzatrice e la nostra vita cristiana non possono trascurare i poveri. «Tutto il cammino della nostra redenzione è segnato dai poveri» [6]. Tutto. A partire da sua madre, la Vergine Santa, una ragazza povera della periferia sperduta di un grande impero. Lo stesso Gesù che si fece povero, che nacque in una stalla tra animali e contadini, che crebbe tra lavoratori e si guadagnò da vivere con le proprie mani, che si circondò di folle di diseredati, si identificò con loro, li mise al centro del suo cuore, annunciò loro per primo la Buona Novella, promise loro il Regno dei Cieli e ci ha inviati tutti, discepoli missionari, a dar loro da mangiare, a distribuire con giustizia i beni con loro, a difendere la loro causa a tal punto da indicarci con chiarezza che «la misericordia verso di loro è la chiave del cielo» (cfr. Mt 25, 35s) [7].
«È un messaggio così chiaro, così diretto, così semplice ed eloquente, che nessuna ermeneutica ecclesiale ha il diritto di relativizzarlo» [8], anche perché qui è in gioco la nostra salvezza. Per questo, il Papa non può smettere di porre i poveri al centro. Non è politica, non è sociologia, non è ideologia, è puramente e semplicemente l’esigenza del Vangelo. Le implicazioni pratiche che questo principio innegoziabile può avere per ogni contesto, società, persona e istituzione — negli organismi internazionali e nei governi, nei sindacati e nei movimenti popolari, nelle imprese e nelle istituzioni finanziarie, nei politici, nei giudici e nei mezzi di comunicazione — possono e devono variare, ma ciò da cui nessuno può sottrarsi o esentarsi è il debito d’amore che ogni cristiano — e oserei dire, ogni essere umano – ha nei confronti dei poveri.
La Chiesa può trovare nei poveri il vento che ravviva la fiamma di un fervore calante, come quel liquido denso con cui gli antichi sacerdoti al tempo di Neemia ravvivarono il fuoco dell’altare dopo l’esilio, affinché risplendesse «un gran rogo, con grande meraviglia di tutti» [9]. Nell’amore attivo che dobbiamo ai poveri si trova la cura per «il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice ed opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata» [10].
In Evangelii gaudium, senza pretendere il monopolio dell’interpretazione della realtà sociale, ho sostenuto, che per risolvere radicalmente i problemi dei poveri, condizione necessaria per risolvere qualsiasi altro problema poiché l’inequità è radice dei mali sociali, avevamo bisogno di un profondo cambiamento di mentalità e di strutture. Vorrei parlare brevemente di questi due aspetti prendendo alcuni paragrafi dalla Esortazione.
Una nuova mentalità
«Una nuova mentalità che pensi in termini di comunità, di priorità della vita di tutti rispetto all’appropriazione dei beni da parte di alcuni» [11].
«La solidarietà è una reazione spontanea di chi riconosce la funzione sociale della proprietà e la destinazione universale dei beni come realtà anteriori alla proprietà privata. Il possesso privato dei beni si giustifica per custodirli e accrescerli in modo che servano meglio al bene comune, per cui la solidarietà si deve vivere come la decisione di restituire al povero quello che gli corrisponde. Queste convinzioni e pratiche di solidarietà, quando si fanno carne, aprono la strada ad altre trasformazioni strutturali e le rendono possibili. Un cambiamento nelle strutture che non generi nuove convinzioni e atteggiamenti farà sì che quelle stesse strutture presto o tardi diventino corrotte, pesanti e inefficaci» [12].
«A volte si tratta di ascoltare il grido di interi popoli, dei popoli più poveri della terra, perché “la pace si fonda non solo sul rispetto dei diritti dell’uomo, ma anche su quello dei diritti dei popoli” [ 154]. Deplorevolmente, persino i diritti umani possono essere utilizzati come giustificazione di una difesa esacerbata dei diritti individuali o dei diritti dei popoli più ricchi. Rispettando l’indipendenza e la cultura di ciascuna Nazione, bisogna ricordare sempre che il pianeta è di tutta l’umanità e per tutta l’umanità, e che il solo fatto di essere nati in un luogo con minori risorse o minor sviluppo non giustifica che alcune persone vivano con minore dignità. Bisogna ripetere che “i più favoriti devono rinunciare ad alcuni dei loro diritti per mettere con maggiore liberalità i loro beni al servizio degli altri” [ 155].Per parlare in modo appropriato dei nostri diritti dobbiamo ampliare maggiormente lo sguardo e aprire le orecchie al grido di altri popoli o di altre regioni del nostro Paese. Abbiamo bisogno di crescere in una solidarietà che “deve permettere a tutti i popoli di giungere con le loro forze ad essere artefici del loro destino” [ 156], così come “ciascun essere umano è chiamato a svilupparsi [ 157]”» [13].
Nuove strutture sociali
Le nuove strutture, fondate su questa nuova mentalità, devono «rinunciare all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredire le cause strutturali della inequità» [14].
«La dignità di ogni persona umana e il bene comune sono questioni che dovrebbero strutturare tutta la politica economica, ma a volte sembrano appendici aggiunte dall’esterno per completare un discorso politico senza prospettive né programmi di vero sviluppo integrale. Quante parole sono diventate scomode per questo sistema! Dà fastidio che si parli di etica, dà fastidio che si parli di solidarietà mondiale, dà fastidio che si parli di distribuzione dei beni, dà fastidio che si parli di difendere i posti di lavoro, dà fastidio che si parli della dignità dei deboli, dà fastidio che si parli di un Dio che esige un impegno per la giustizia. Altre volte accade che queste parole diventino oggetto di una manipolazione opportunista che le disonora. La comoda indifferenza di fronte a queste questioni svuota la nostra vita e le nostre parole di ogni significato. La vocazione di un imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita; questo gli permette di servire veramente il bene comune, con il suo sforzo di moltiplicare e rendere più accessibili per tutti i beni di questo mondo» [15].
«Non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato. La crescita in equità esige qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga, richiede decisioni, programmi, meccanismi e processi specificamente orientati a una migliore distribuzione delle entrate, alla creazione di opportunità di lavoro, a una promozione integrale dei poveri che superi il mero assistenzialismo. Lungi da me il proporre un populismo irresponsabile, ma l’economia non può più ricorrere a rimedi che sono un nuovo veleno, come quando si pretende di aumentare la redditività riducendo il mercato del lavoro e creando in tal modo nuovi esclusi» [16].
Se non riusciamo a realizzare questo cambiamento di mentalità e di strutture, siamo condannati a vedere come si approfondisce la crisi climatica, sanitaria, migratoria e, in particolare, la violenza e le guerre, che mettono a rischio l’intera famiglia umana, poveri e non poveri, integrati ed esclusi, perché «siamo tutti sulla stessa barca e siamo chiamati a remare insieme».
In Evangelii gaudium ho cercato di mettere in guardia da ciò:
«Oggi da molte parti si reclama maggiore sicurezza. Ma fino a quando non si eliminano l’esclusione e l’inequità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza. Si accusano della violenza i poveri e le popolazioni più povere, ma, senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione. Quando la società — locale, nazionale o mondiale — abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità. Ciò non accade soltanto perché l’inequità provoca la reazione violenta di quanti sono esclusi dal sistema, bensì perché il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice. Come il bene tende a comunicarsi, così il male a cui si acconsente, cioè l’ingiustizia, tende ad espandere la sua forza nociva e a scardinare silenziosamente le basi di qualsiasi sistema politico e sociale, per quanto solido possa apparire. Se ogni azione ha delle conseguenze, un male annidato nelle strutture di una società contiene sempre un potenziale di dissoluzione e di morte. È il male cristallizzato nelle strutture sociali ingiuste, a partire dal quale non ci si può attendere un futuro migliore. Siamo lontani dalla cosiddetta “fine della storia”, giacché le condizioni di uno sviluppo sostenibile e pacifico non sono ancora adeguatamente impiantate e realizzate» [17].
«I meccanismi dell’economia attuale promuovono un’esasperazione del consumo, ma risulta che il consumismo sfrenato, unito all’inequità, danneggia doppiamente il tessuto sociale. In tal modo la disparità sociale genera prima o poi una violenza che la corsa agli armamenti non risolve né risolverà mai. Essa serve solo a cercare di ingannare coloro che reclamano maggiore sicurezza, come se oggi non sapessimo che le armi e la repressione violenta, invece di apportare soluzioni, creano nuovi e peggiori conflitti. Alcuni semplicemente si compiacciono incolpando i poveri e i paesi poveri dei propri mali, con indebite generalizzazioni, e pretendono di trovare la soluzione in una “educazione” che li tranquillizzi e li trasformi in esseri addomesticati e inoffensivi. Questo diventa ancora più irritante se gli esclusi vedono crescere questo cancro sociale che è la corruzione profondamente radicata in molti Paesi — nei governi, nell’imprenditoria e nelle istituzioni — qualunque sia l’ideologia politica dei governanti» [18].
Allo stesso modo, le crisi climatiche, sanitarie e migratorie affondano le loro radici nell’inequità di questa economia che uccide, scarta e distrugge la sorella madre terra, nella mentalità egoista che la sostiene, di cui ho parlato più approfonditamente in Laudato si’. Chi pensa che può salvarsi da solo, in questo mondo o nell’altro, si sbaglia.
A dieci anni dalla pubblicazione di Evangelii gaudium, riaffermiamo che solo se ascolteremo il grido spesso soffocato della terra e dei poveri, potremo compiere la nostra missione evangelizzatrice, vivere la vita che ci propone Gesù e contribuire a risolvere i gravi problemi dell’umanità.
Vi ringrazio di nuovo per questo Simposio.
Grazie per quello che fate. Vi benedico e accompagno con la preghiera. E voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me.
Città del Vaticano, 24 novembre 2023
Francesco
[1] Esortazione apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013), n. 263.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem, n. 24.
[4] Ibidem, n. 263.
[5] Ibidem, n. 193.
[6] Ibidem, n. 197.
[7] Ibidem, n. 197.
[8] Ibidem, n. 194.
[9] 2 Mac 1, 22.
[10] Esortazione apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013), n. 2.
[11] Ibidem, n. 188.
[12] Ibidem, n. 189.
[13] Ibidem, n. 190.
[14] Ibidem, n. 202.
[15] Ibidem, n. 203.
[16] Ibidem, n. 204.
[17] Ibidem, n. 59.
[18] Ibidem, n. 60.
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L’Osservatore Romano, Anno CLXIII, 25 novembre 2023, p. 2.